Venezia.
Pensavo che da una finestra si potesse guardare fuori, e qui scopro che è in realtà l'azzurro del cielo a spiare dentro, non per invadenza, ma per un che di spontaneo che somiglia alla curiosità dei passanti che, conoscendosi solo di vista, non osano salutarsi. Così distrattamente ma con audacia si interessano, di modo che, interno ed esterno provano a sbirciarsi di continuo. A questa scena buffa, non priva di impaccio e di magia, partecipa tutta la città, senza esserne consapevole. I riflessi di luce sull'acqua giocano con le superfici opache delle stanze. Ogni tanto qualche nuvola distratta si incastra tra le vetrate dei palazzi; i colori ne ridono impazziti, si divertono le onde tra i canali. E un solletichio di alte maree smuove qualcosa di sottile, di incomprensibile, che avverto salire dove si accumulano vaghi piaceri che io non ho. Sono come il ghirigoro di un bambino che gioca con il suo pennarello, sono un segno casuale causato dalla mano libera di chi non deve liberarsi di niente, e si ritrova per caso a giocare con il caso.